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Il Natale di qualche decennio fa

 

S.Andrea porta ra nòva,

quàttru Barbara e sei Nicola,

gòttu Maria, tridici Lucia

e ru vinticincu lu Missia”

E’ questo il detto che ogni anno a fine novembre mamma suole enunciare. Ricordo questo detto sin dal tempo della mia infanzia e, oggi come allora, nonostante tutto, nel riascoltarlo, provo le stesse emozioni di qualche anno fa.

Enunciarlo voleva dire anche liberarsi dalla malinconia suscitata dal culto della morte vissuto nel mese di novembre e predisporre lo spirito alla grande gioia della vita da manifestare e celebrare con l’avvento di nostro Signore.

Così, ascoltando mamma, per fortuna ancora una volta, puntualmente il pensiero vola indietro nel tempo, e in pochi attimi, scorrono come in un film i tanti fotogrammi delle giornate trascorse a Cariglio durante le festività natalizie.

………….Prepararsi a vivere i giorni di Natale procurava brio e gioia e l’attesa era già una festa; già dal primo giorno di dicembre non si faceva altro che pensare alla notte di natale. ……………..

…………I colori e l’atmosfera vissuti nel mese di novembre, appena trascorsa la festa di S. Andrea, assumevano tonalità vivaci e briose e le festività di S. Barbara, S. Nicola, la novena e la solennità dell’Immacolata iniziavano a produrre quell’atmosfera gioiosa tipica dell’attesa natalizia.

Santa Lucia: ultima festività citata nel detto, apriva le porte all’avvento e l’attesa man mano si avvicinava la vigilia, diventava sempre più frenetica e smaniosa, scandita al passar di ogni giorno dall’osservanza dei jurni cuntati che dal tredici dicembre fino al ventiquattro rappresentavano per il mondo contadino di un tempo il calendario meteorologico dell’anno nuovo. Si credeva infatti che i dodici giorni dal tredici al ventiquattro raffigurassero nell’ordine i dodici mesi dell’anno e che la condizione meteorologica espressa in quei dodici giorni, si sarebbe verificata poi durante l’anno nei rispettivi mesi……….

…………. Era bello ed emozionante pensare al presepe, mi sentivo invaso da un senso di gioia irrefrenabile e ogni volta non vedevo l’ora di vederlo realizzato.

…………….. Il comò era il posto su cui si costruiva il presepe, con le cozze di canna ricoperte di muschio, papà formava le montagne e le colline e dalle colline partivano le viuzze che arrivavano alla grotta; qualche casetta, poche pecorelle e pochi pastori di terracotta, una spruzzata di farina bianca che simulava la neve, qualche rametto di corbezzolo, l’immancabile stella polare e quel piccolo presepe messo su un po’ arruffato aveva il potere di sprigionare un’atmosfera di grande serenità ……….

…………. Il tempo della vigilia si avvicinava, l’irrequieto andare di noi figli, smaniosi di vivere quei giorni di festa, era frenetico, curioso e denso di domande rivolte a mamma su cosa poteva preparare con le uova, la farina, le noci e altre cose che metteva da parte.

vua cchi buliti” diceva “i turdiddri o i pittareddre”, “tutt’i dugua mà! e puri na picca i giurgiulena” era la risposta.

Ognuno in casa chi più chi meno, metteva da parte ciò che serviva a preparare quei pochi dolci da consumare in famiglia o da offrire a chi soleva far visita per fare gli auguri di buone feste.

turdiddri” e “giurgiulena erano i tipici dolci del periodo natalizio, in quasi tutte le case se ne preparavano buoni quantitativi mentre le “pittareddre” o “grispèddre” rappresentavano la pietanza più sostanziosa e abbondante prodotta dalla frittura della sera della vigilia. ………………

………….. Finalmente arrivava il giorno della vigilia. Su e giù per il paese il clima festoso invadeva un po’ tutte le case. Tanti si fermavano ad ammirare il piccolo presepe nella bottega “ i Ligiu u scarpòru” e chi poteva dava una mano ad ultimare il grande presepe nella chiesa che ogni anno Don Bernardino proponeva con ottima competenza.

La sera, prima di cena, l’allegro vociare dei ragazzi animava la piccola piazza davanti la chiesa, mentre il profumo delle bucce d’arancia imbrunite dai carboni appena accesi nei bracieri “i Filumèna, i Ghèmma, i Rosa e Tirisina, i Cuncètta, i Maria i Geniu” lasciati sui davanzali al soffio del vento si diffondeva lungo la via e si avvertiva acre e pungente come pungente e aspra era la tramontana che spesso accompagnava quelle fredde serate dicembrine.

Il freddo e la voglia di rientrare per l’ora di cena suggeriva ad ognuno a far ritorno a casa e vivere con i propri cari il fascino della notte di Natale.Anche i più incalliti bevitori dell’animosa comitiva che sovente si formava nella piccola cantina “da Guerino” s’affrettavano a tracannare un ultimo bicchiere dandosi comunque appuntamento per dopo cena a bere ancora qualche altro bicchiere passando di casa in casa a far gli auguri a parenti e amici.

……………Nelle nostre case così come nella maggior parte delle case della nostra regione si ripetevano gesti e riti della tradizione natalizia: veri e propri trattati antropologici che attraverso comportamenti e simboli ereditati e tramandati nel tempo quasi esclusivamente dalla sola pratica delle massaie, avevano il significato di tracciare il confine fra l’umano e il divino.

…………La sera della vigilia al focolare su in soffitta papà accendeva il fuoco, metteva a bruciare un grosso ceppo di quercia destinato a mantenere la fiamma durante la frittura delle “pittareddre” e per il resto della notte……….

……………….. Si friggeva fino a qualche ora prima di cena, badando di tenerci distanti dal fuoco e man mano le pittareddre friggevano, si toglievano dalla padella e si mettevano a scolare in una cesta e lasciate un po’ a raffreddare prima di essere gustate asciutte o intinte nel miricottu. Erano momenti di allegria scaturiti da semplici gesti spesso condivisi con amici e parenti.

Si friggeva un buon quantitativo di pittareddre, volutamente più del necessario. Si teneva per ciò conto della stima da esternare ai vicini o a chi non poteva godere della gioia di quella serata. Infatti, capitava purtroppo che in qualche famiglia, quasi sempre a causa di un lutto che inevitabilmente prima o poi si verificava, quei momenti di felicità non potevano essere vissuti. In quella famiglia, per natale non si accendeva il fuoco nè si friggeva. “amara chira casa cun po’ frija” diceva mamma e così dicendo riempiva un piatto di pittareddre badando che fossero di numero dispari, li copriva con un panno e li portava in quella casa fredda e silenziosa.Chi riceveva quel dono, in segno di ringraziamento diceva “cì vò pèrdi” esprimendo così l’augurio di non dover mai restituire quel gradito dono per lo stesso motivo.

Dopo la frittura delle pittareddre mamma preparava la tavola per la cena.Le pietanze dovevano essere nove, quanti sono i mesi di gestazione prima di una nascita.

La pasta con le sarde salate, baccalà fritto e pipi arrigliati, baccalà in umido con le patate, broccoli fritti, insalata di cavolfiori, frittelle di zucca, pittareddre, fichi secchi (nucchètte e cropicèddre) e giurgiulena erano queste le portate della nostra cena di natale.

Si assaggiava un po’ di tutto e una volta finito di cenare si lasciava la tavola imbandita perché si credeva che in quella magica notte le anime dei morti e la Sacra Famiglia avrebbero visitato la casa e mangiato di quella cena. ……………

……….Quell’allegro vociare, veniva interrotto soltanto dall’annuncio che faceva papà, allorché decideva, come ormai faceva da sempre, di raccontarci delle magie della notte di natale e della notte della befana.

Un velo di mistero, suffragato da un insolito silenzio, avvolgeva il piccolo ambiente e nell’ascoltare quei racconti, lo stupore e l’incredulità affioravano curiosi sul volto di ognuno.“Dal fuoco acceso nella notte di natale” diceva “il capofamiglia tirava fuori due tizzoni ardenti e li strofinava sulla brace l’uno contro l’altro. Da quel contatto scaturivano tante scintille luminose che svolazzavano intorno. Si credeva che ogni scintilla rappresentasse un animale domestico: una mucca, una pecora o un altro armento. Più scintille si producevano dallo strofinio di quei due tizzoni e più intenso era l’augurio di avere per l’anno nuovo un numero più grande di animali.

“La notte della befana” continuava “era ancora più magica. In quella notte infatti, accadeva qualcosa di assolutamente prodigioso. Allo scoccare della mezzanotte le fontane versavano olio, l’acqua che scorreva nelle fiumare si trasformava in miele e, cosa più incredibile, gli animali parlavano, e, se durante il giorno della vigilia non mangiavano in abbondanza, durante la notte proferivano bestemmie e imprecavano e maledicevano il padrone.” ……………

…………….Intanto la via del paese tornava a rianimarsi, “da Cava i Coppa, i S.Janneddru, du livìtu, di marri” intere famiglie si avviavano verso la Chiesa per partecipare alla Messa di mezzanotte, accompagnate dalla suggestiva e particolare melodia della zampogna suonata dal vecchio Parise.

La piccola chiesa a stento conteneva tutti, da un lato tutte le donne e dall’altro gli uomini. a Mezzanotte il suono festoso delle campane annunciava la nascita del Messia mentre il coro delle donne condotto dall’indimenticata “cummà Gilda” intonava la bellissima Tu scendi dalle stelle per me unica e insostituibile melodia natalizia

………. Da noi era così il natale di qualche anno fa, una festa ricca di semplicità e povera di fastosità

Luigi Tuoto

 

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