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          Cariglio nei ricordi di un fuscaldese

Sono bellissimi i pomeriggi della primavera a Cariglio lì, dove “a spera du suli” (il riflesso del sole) che non vuole cedere spazio alla luce crepuscolare, ostinatamente si ferma a disegnare una striscia argentea sul mare per poi risalire e come onda gonfia, abbattersi ad inondare la costa, le colorate facciate, i tetti a “ciaramili” (tegole a coppi) di antiche case.

Sul balcone con la ringhiera minimale in ferro battuto e il pavimento in lastre di tufo ricavate “da pirrera” (cava) vicino al “mulino i sutta” , ascoltavo la musica di un’orchestrina di amici che suonava nella stanza con affacciata a mare che mi ospitava.

Moritat, Un bacio a Mezzanotte (fox) Le foglie morte (lento) Il valzer delle candele, La Cumparsita (tango) il celeberrimo “scià scè” Rosamunda, l’immancabile Quadriglia, la Mazurca della nonna, la Polka, Marina, Terra straniera, La raspa … tutti pezzi di un repertorio più volte collaudato che amici di un tempo eseguivano in prova concerto e poi ai “festini di ziti”.

I gruppi, uno di Fuscaldo ed uno di Cariglio, Molto spesso si integravano o si miscelavano all’abbisogna. Ne ricordo di molti i volti e con l’aiuto di Luigi Tuoto, Pino il Web di Cariglio, Pino Cappadone, ora anche i nomi : Pietro Lanzillotta, Gino Boderone, i fratelli Castagnaro Enzo e Geppino, Totonno Carofalo, Peppe Lopiano, Gino detto “u carigliaro” Franco Picarelli. Saltuariamente si univano anche Nino d’Aqui (violino) e Ciccio Bonavita (clarinetto).

Paziente e fumando una nazionale esportazione, aspettavo di essere chiamato a suonare qualche percussione: le cleris ( non so se il termine è esatto) o le maracas. Non sapevo fare altro, ma avevo un buon timbro di voce e di tanto in tanto cantavo nel gruppo in prova, qualche canzone di Celentano imitandolo maldestramente. Capitava anche di sostituire brevemente Franco Picarelli alla batteria quando si eseguiva un pezzo tipo dixieland: la mia passione di sempre.

“ Vulissa u sonu fino”.

Con questa espressione non consueta ma utilizzata spesso, qualcuno contrattava e commissionava l’orchestra al “capo gruppo” raccomandandosi appassionatamente.

Una calorosa stretta di mano era il sigillo al contratto che prevedeva anche una sosta per l’orchestra con relativa cena intorno alle 21-22.

Panza mia fatti capanna! La tavola era imbandita di ogni ben di Dio. Si iniziava generalmente con un consommé di brodo di pollo” cu carne spicchijiata i ghindra” (con carne spezzettata) per poi passare a “maccarruni i zita spizzati a manu” (ziti spezzati) al sugo con polpettine di carne (generalmente maiale) quindi carne al sugo, patate fritte, salame, formaggi,” pani i casa” (pane casereccio) “alive” (ulive), lupini, insalata, frutta di stagione e …per dirla alla grande …ettolitri di vino.

“E mo’chini sona cchiù”.

Questa espressione era ricorrente “doppu tutti chiddri sbarattatavula” (dopo quella lauta cena) ma si riprendeva e pure con maggiore entusiasmo ed allegria che sfociava in lunghissime tarantelle o quadriglie comandate in un “francitaliano” maccheronico degno del miglior avanspettacolo !

La cena offerta all’orchestra come le “passate” (guantere = guantiere- vassoi) di liquori e dolci davano la “misura” alla festa. Con questo parametro gli invitati commentavano e i “maschietti scichetti” (ma non solo) si davano il “passaparola” sulle “donzelle” più … disponibili alla “stretta” durante “l’abballo”.

Chi subiva, suo malgrado, rifiutava i successivi inviti dell’intraprendente cavaliere : “abballamu?” “noni noni ca mi fonu mali i pedi” salvo poi ad accoglierne altro. Era un segnale inconfutabile : “chiddra un ci stà. E’ inutile ca ‘mbitamu” (Non ci stà, ha capito gli intenti. E’ inutile invitarla).

Non so a chi è capitato di vedere i nomi di famiglie scritte sulle spalliere delle sedie impagliate. La scritta era finalizzata al recupero “du mbrestu” (del prestato) una volta terminato il festino. Già, perché tutto il vicinato e non solo, partecipava e condivideva momenti di gioia come quelli meno felici che accompagnano purtroppo, la vita di ognuno.

Ricordo la reazione che ebbe Pietro Lanzillotta allorquando, noi inconsapevoli, ci sentì suonare il giorno successivo alla morte di un parente di un suo fraterno amico : … “come vi permettete! xxxxx è come un fratello per me e devo rispettare il suo momento ! Una cordiale spiegazione e tutto finì senza rancore alcuno.

Con Luigi non siamo riusciti ad individuare i riferimenti precisi. Ma quella era solidarietà, affetto, vera partecipazione, amicizia vera. Era VALORE lo stare insieme il rispetto reciproco, l’ironia, un racconto sul muretto, “na tirata i sigarette”, “ na sunata cu altoparlanti ca fiscicavanu a ra biddrizza”, “na serenata a ri ziti”, “na luna calante”… E ora? Ci rimbecilliscono con il grande fratello, uomini e donne, l’isola dei famosi e pure a “mungiuta, a stritta”… mangu si suda cchiù.

Con affetto dedico agli amici di Cariglio ed in particolare a Pietro che so non sta bene con le scuse per le espressioni dialettali volutamente non tradotte per ragione di AMARCORD.

 

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