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          U PORCU
 

 

Gennaio in Calabria è per tradizione il mese dedicato all’uccisione del maiale, “si scanna ru pòrcu”. In tutti i paesi della nostra regione si rinnova puntualmente questa tradizione che, ancora oggi, da molti, viene vissuta con attiva partecipazione. Dal Pollino all’Aspromonte, dal Tirreno allo Jonio, questo rito popolare continua ad essere espletato con le stesse formalità, e per molti aspetti suscita ancora la stessa densità emotiva vissuta negli anni passati dai nostri avi.

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fine anni 50 primi anni anni 60

Verso la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, i contadini di Cariglio che non possedevano una scrofa, si apprestavano a comprare il maialino “u passaturu”.In quel periodo dell’anno, in molti solevano recarsi in quei paesi dove si svolgevano le più importanti fiere degli animali.Cetraro, Aieta, Buonvicino, Arcavacata rappresentavano i paesi di maggiore attrazione. Per Cariglio e per il comprensorio di Fuscaldo, la fiera si svolgeva nei presi della piccola chiesetta di S.Maria “aru Trappìtu” il 2 febbraio; giorno della Candelora. Le varie razze dei maiali in vendita offrivano una buona possibilità di scelta. Vi erano quelli dalle setole nere e dure e quelli dalle setole bianche e morbide. Cosicchè, fra la parsimonia del cauto compratore, attento a spendere quella somma risparmiata con grandi sacrifici e la dinamica intraprendenza del venditore, pronto all’occorrenza a praticare uno sconto particolare, tutti alla fine riuscivano a concludere la trattativa, e ognuno portava a casa “u passaturu” che soddisfava le proprie esigenze. Nella semplice ed essenziale economia familiare, quell’operazione di esborso veniva annoverata nella lista delle spese e non certo in quella degli investimenti; una spesa importante se vogliamo, ma, pur sempre una spesa. Solo a gennaio, dopo la macellazione del maiale, prendeva consistenza la convinzione di aver fatto a suo tempo un buon affare, un affare dal quale per buona parte dell’anno dipendeva il sostentamento alimentare dell’intera famiglia.

Di ritorno dalla fiera, di lì a qualche giorno, un’altra incombenza non meno impegnativa doveva essere assolta. Per meglio ingrassare, il maiale doveva subire la castrazione. Ogni tanto passava da Cariglio “u grastatùru”: colui appunto che praticava la castrazione. Attrezzato con particolari coltellini, un’ asola e dello spago, si apprestava, su richiesta, ad effettuare il rudimentale intervento chirurgico che, per i maialini consisteva nell’estrazione dei testicoli e per le maialine l’estrazione dell’ovaia. Il costo di tutta l’operazione ammontava complessivamente a qualche centinaio di lire. A castrazione avvenuta, sistemato definitivamente il maialino nel porcile “a zimba”, si pensava con religioso impegno ad accudirlo infaticabilmente fino al prossimo mese di gennaio, allorquando, con la macellazione e la trasformazione delle sue carni, si concludeva l’intero ciclo della sua breve vita.

La brodaglia “a vròda” ricavata per lo più dai rifiuti alimentari domestici arricchita con della crusca “a caniglia”, rappresentava il pasto più importante che veniva servito “ a sua maestà il porco”. Iniziava così il ciclo del suo ingrassamento. Dopo una prima fase di brodaglie e pastoni, si passava a quella più sostanziale a base di ghiande, castagne, fichi,zucche, fave, lupini, pannocchie di mais, avena, ceci, lo scarto della frutta, patate e altri ortaggi.

Per esso, volentieri si sacrificava buona parte della giornata. Infatti, almeno due o tre volte al giorno riceveva la visita di chi lo governava. Un’intera giornata senza cibo non veniva e non poteva essere lasciato.

Alcuni contadini dediti anche alla pastorizia portavano i porci al pascolo con pecore e capre. Le colline sovrastanti Cariglio: “A Gliandrara, u jungu, jannicara, a castagna, u mpor’i pici, u cozzu a monaca, i marri, i chianuri, a salicara” offrivano un’ottima possibilità di un pascolo genuino nella più totale libertà. I maiali avevano così la possibilità di racimolare un pasto sicuramente diverso e più gustoso. La vita allo stato brado tuttavia, non consentiva loro di ingrassare come nel porcile. Il vantaggio però, sicuramente di non poco conto, consisteva, a macellazione avvenuta, nella qualità del salame che si ricavava da quella carne meno grassa, sicuramente più gustosa e più genuina, e dal fatto che, governare il maiale al pascolo non costava nulla, dettaglio quest’ultimo, per quei tempi, non del tutto trascurabile.

Ingrassare il porco, rappresentava una condizione sociale che spesso poneva in uno stato di superiorità una famiglia rispetto ad un’altra che non aveva la stessa possibilità. Chi di porci ne ingrassava più d’uno poteva “ammalarsi di megalomania”, ostentando con spacconeria la propria condizione sociale, facendo di tutto per porsi un gradino più in alto, provocando, sovente, gelosie e pettegolezzi nel vicinato.

Il porcile, quasi sempre veniva ricavato sotto il ballatoio della scala esterna delle abitazioni; particolare architettonico, questo, comune nella maggior parte dei casolari della nostra campagna, e in parte anche nelle case dei centri storici. Chi non aveva questa possibilità, costruiva il proprio porcile nell’orto o nelle immediate vicinanze della casa. Tutti i porcili venivano decorati con superstiziosi oggetti che secondo la credenza popolare dovevano proteggere il maiale dal malocchio. Corna di bue e di montone, ferri di cavallo e corni di varia grandezza venivano esposti in bella mostra nei punti più visibili del porcile. Visibili specialmente dall’occhio invidioso del vicino, o peggio, del parente. Su tutti i porcili però, quasi a voler sottolineare il forte contrasto fra il sacro e il profano, campeggiava, in bella vista, incisa con la calce liquida, l’epigrafe “W S. Antonio”. La scritta serviva ad invocare la figura di S. Antonio Abate, da sempre considerato il protettore dei maiali. Molta gente in quel periodo, non a caso scannava il maiale a ridosso del 17 gennaio, data in cui ricorre, appunto, la festività di S. Antonio Abate.

La convivenza fra le cose sacre e le cose profane ha sempre caratterizzato la quotidianità della nostra gente. Grande fede in S. Antonio, certo, ma se un aiuto poteva arrivare anche dalla forza sprigionata da un corno o da un ferro di cavallo tanto di guadagnato. Superstizione? Inettitudine? insicurezza? Verosimilmente, forse, solo l’ineluttabile operato del vivere quotidiano, irrimediabilmente tracciato dal destino di ognuno.

Il porco trascorreva la sua breve vita come un “nababbo” epicureo. Gennaio però arrivava presto, e a quel punto, il padrone gli serviva il conto; un conto pesantissimo che valeva una vita. Quasi sempre per scannare il maiale si sceglieva il giorno del sabato in modo da poter festeggiare l’evento la domenica. Diventava opportuno l’utilizzo del tempo di quelle giornate, perchè in esse, già festose, il duro lavoro dell’operazione veniva sopportato con più facilità.Parenti e amici facevano da corona a quella festa che rappresentava un importante appuntamento di aggregazione sociale. Quel rito ancestrale, la cui origine si perde nella notte dei tempi, da tutti veniva vissuto come la festa dell’abbondanza. La provvista di salsicce e soppressate, di sugna, di lardo, di sanguinaccio, di carne salata, di gelatina, di prosciutti e capicolli, rappresentava una valida riserva di gustosi alimenti. All’invito, che sempre si concludeva con un lauto pranzo, ci si presentava disponibili con stima e dovere, e appena l’amico, il compare o il parente si apprestava a sua volta a scannare il proprio maiale, si restituiva l’invito con altrettanta stima e cortesia. A volte, anche con un po’ di fame in più (qualcuno, infatti, non disdegnava purgarsi il giorno prima di partecipare al banchetto)

A casa mia, già qualche mese prima mia madre dava inizio ai preparativi degli ingredienti che servivano a condire la carne per le salsicce e le soppressate, pestava le pietre di sale nel tipico mortaio di legno di quercia “u sazèri”, pestava i peperoni rossi prima essiccati e poi abbrustoliti nel forno a legna, la polvere che se ne ricavava serviva a dare alla salsiccia un particolare colore e sapore. Custodiva in piccoli recipienti di vetro le foglie d’alloro, il finocchietto, le noci, le nocciole e l’uva passa.

Verso la fine di novembre e i primi giorni di dicembre, quasi a voler indicare l’inizio del periodo dell’uccisione dei maiali, i monaci passionisti del convento di Fuscaldo, solevano girare elemosinando per i casolari delle nostre contrade. Ad ogni famiglia che s’apprestava a scannare il maiale consegnavano uno o due piccoli vasetti di terracotta “i pignateddri” opportunamente li lasciati per la raccolta del grasso. Ognuno in segno di ringraziamento volentieri offriva quell’elemosina, e con amorevole devozione custodiva quei piccoli vasi finchè ”ara spunùta da quadara” venivano riempiti del primo grasso e riconsegnati ai monaci.

A Cariglio, per conto del parroco Don Bernardino Ferraro, si preoccupava di distribuire e ritirare“i pignateddri” Sofia Pompei, indimenticatafigura che spesso prestava la sua opera a favore della parrocchia.

Almeno dieci giorni prima dell’evento mio padre si preoccupava di avvisare parenti e amici, ma soprattutto “u mastru scannaturu” .Quasi tutti avevano nella famiglia qualcuno che all’occorrenza si improvvisava “scannaturu”. Nella nostra non vi era uno capace di tanto ardire. Mio padre intraprendente in varie discipline, non si prodigava in quella attività, anche se, nella fattispecie, subito dopo, con accortezza e pazienza provvedeva da solo a selezionare “a spasciare” le parti del maiale destinando le carni alle varie lavorazioni.

Mia madre, come padrona di casa e in segno di buon augurio, durante la scannatura, doveva preoccuparsi della raccolta del sangue.

La figura “du scannaturu”, nel caso della mia famiglia, era impersonata e espletata con maestria da “Peppe Alivi” per l’anagrafe Oliva Giuseppe: netturbino del paese “u scupaturu”. Con altrettanta maestria e disponibilità si prestava anche “Cùmpa Carlu u vaddriscu” per l’anagrafe Aceto Carlo:maniscalco del paese “u furgioru” -

La sera di venerdì mamma era indaffarata a preparare ogni cosa che l’indomani poteva risultare utile.

Prima di tutto i vari recipienti e oggetti che d’usanza servivano a fronteggiare la prima emergenza che si presentava: Una capiente pentola di rame per la raccolta del sangue, Una grossa cesta “u crivu” per la raccolta delle interiora. Uno spiedo “u ntriaturu” (Fuso di ferro utilizzato per rivoltare gli intestini), coltelli di varia lunghezza, una serie di pignatte, vasi e vasetti di terracotta di varia grandezza, limoni e sale.

Quella sera, nè mia madre nè nessun altro della famiglia si era recato al porcile per portare il pastone al maiale. Il motivo di quella premeditata dimenticanza consisteva nel fatto che l’indomani all’alba il maiale doveva essere “scannato”. Il forzato digiuno imposto all’animale trovava fondamento in due particolari e pratici motivi. Il primo ne giustificava il digiuno perché l’indomani, per un pasto che gli veniva ingannevolmente offerto, il maiale avrebbe volentieri lasciato il porcile. Il secondo motivo, di carattere igienico-pratico, consisteva nel fatto di mantenere il più possibilmente vuoto il suo intestino in modo tale che, dopo la macellazione, una volta estratto, l’operazione di lavaggio e sterilizzazione risultava più agevole.

Quella stessa sera un altro importante compito doveva essere assolto, bisognava riempire d’acqua la caldaia“a quàdara” quella più grande. Nessuno In quegli anni aveva l’acqua in casa, tutti per ciò dovevamo approvvigionarci all’unica fontana del paese; quella d’avanti la chiesa. La fila, sempre numerosa,era particolarmente estenuante, specialmente nelle fredde serate di gennaio.

Di buon’ora la mattina del sabato mio padre provvedeva ad accendere il fuoco sotto la caldaia.Intanto uno dopo l’altro arrivavano puntuali i parenti e gli amici invitati. L’agre odore della legna che bruciava, mescolato a quello del caffè corretto all’anice si diffondeva per tutto il vicinato. Si capiva da quell’odore che di li a poco si sarebbe scannato un maiale. Una volta gustato il caffè e scambiato due parole, ci si avviava verso il porcile per prelevare la vittima designata.

Come dicevo prima, per indurre il maiale ad uscire dal porcile, mia madre, in una cesta “nu panòru” agitava delle ghiande in modo da diffonderne la fragranza nell’aria. Si perpetrava in quell’occasione un vero e proprio ricatto ai danni della bestia. Il maiale, infatti, annusava le ghiande, e convinto di poterle mangiare, tosto seguiva chi gli offriva quel cibo. Si fidava di quella donna che per quasi tutto l’anno l’aveva vista riempirgli il trogolo “u scifu” e accudire la sua dimora. Di lei, naturalmente continuava a fidarsi, cosicchè, ignaro, percorreva la via verso il patibolo.

Un rudimentale banchetto di legno rappresentava il ceppo su cui si consumava il sacrifico. Tutto era pronto, l’acqua nella caldaia bolliva, il maiale si dimenava come ogni animale istintivamente fa. Poi, ad un segnale convenuto, contemporaneamente, tutti si avventavano sulla bestia, uno provvedeva a legargli le zampe posteriori tenendo ben stretto un legaccio, un altro, quello più forzuto, faceva la stessa cosa con le zampe anteriori mentre “u scannaturu” stringeva il muso del maiale stretto con un laccio serrando la testa alle sue gambe in modo che la gola risultasse libera e quindi più facile da colpire. Il maiale si dimenava, i grugniti si diffondevano intorno, si udivano “da Rimmenia, du cozz’i votajanna, i Santianneddru i cerzumiu” bisognava fare presto, tutti tenevano ben stretta la vittima. A quel punto,“u scannturu”, dopo aver pronunciato la fatidica frase :”salut’a ru patruni”, impavido, quasi spavaldo, affondava il coltello nella gola della bestia in modo da reciderne la carotide. Dalla ferita prodotta il sangue fuoriusciva copioso. Raccolto in una pentola di rame, per non farlo coagulare, veniva continuatamene agitato con un mestolo, quasi sempre un pezzo di canna. Era quello il primo provento che un animale così generoso offriva alla famiglia. Il maiale ferito a morte si dimenava e ad ogni suo movimento, dalla ferita, il sangue continuava ad uscire quasi con violenza, alcuni fiotti cadevano per terra; era quello un segnale di buon augurio.

Quella fase, la più cruenta e concitata, era sicuramente la più delicata, ognuno, ammutolito, era concentrato nel proprio lavoro. Io ero il più piccolo, il mio compito era quello di tenere la coda. Mio padre e mia madre nel momento dell’uccisione mi comandavano di non guardare. La loro apprensione era giustificata prima di tutto dalla reazione che poteva provocarmi quel momento di violenza, ma, anche dal peso che si dava ad un’antica credenza popolare in base alla quale, se un adolescente, nel momento dell’uccisione provava dispiacere per quello che stava accadendo, bloccava inconsciamente la fuoriuscita del sangue ritardando la morte del maiale. Nè tanto meno, per lo stesso motivo si poteva pronunciare l’aggettivo “povareddru” - Per la verità, tutti contavano su una breve agonia del maiale. In fondo, la fine di quella sofferenza donava concretezza e consistenza alla festa che stava per cominciare.

Il sangue veniva raccolto fino all’ultima goccia. Una prima operazione consisteva nella sua trasformazione. Subito veniva fatto bollire a fuoco lento con uva passa, noci, buccia d’arancia, cannella e miele di fichi. Un’operazione che richiedeva molta pazienza e soprattutto la presenza continua di una persona che aveva il compito di mescolare in continuazione il composto fino ad ottenere un prodotto denso dal sapore raffinato. Appunto il sanguinaccio “U sàngu duci

Appena ucciso, il maiale veniva coperto da teli di iuta e veniva bagnato con l’acqua bollente. Questa operazione permetteva di mantenere a temperatura costante per un certo periodo di tempo le parti del corpo, permettendo così di tagliare “spinnà” agevolmente le setole “i nziti”. Questa operazione molto delicata veniva effettuata con particolari coltelli ben affilati. Bisognava tagliare i peli in modo da lasciare la cotenna ben rasata per avere poi i “coireddri” lisci e ben spennati senza traccia di peli. A consolidare la tesi che “du porcu un si jetta nenti”, spesso, i calzolai (indimenticate le figure di Mastru Peppi e Ligiu u scarpòru) chiedevano di poter prelevare le setole più consistenti e più lunghe che si trovavano sulla schiena del maiale. Setole che venivano utilizzate nella preparazione dello spago per cucire la suola e la tomaia delle scarpe. Infatti lo spago al cui capo veniva incerata la setola del maiale, passava con facilità nel buco praticato nella suola con l’asola “a suglia”.

Dopo averlo ben pulito, il maiale veniva appeso a testa in giù attaccato “aru gambeddru”: resistente e ricurvo attrezzo di legno che a sua volta veniva fissato all’interno del locale a piano terra “ntu catoiu” alla trave maestra “u sarcinali”. Per effettuare quest’operazione, si praticava un taglio alle zampe posteriori in modo da evidenziarne i tendini dentro i quali si inserivano le due estremità“ du gambeddru”.Quella posizione perpendicolare consentiva di praticare una più accurata pulitura delle cotica e sopratutto di squartare agevolmente il maiale in due parti “menzine” uguali. Cosicché, dopo averlo segnato con il segno della croce, il macellaio affondava il coltello dando inizio alla divisione. Una prima operazione consisteva nell’estrarre le interiora “a stintinata” che subito veniva posta “ntu crivu” e portata alla fontana “a marcèddru” per la separazione e la pulitura. L’intestino veniva lavato e rilavato più volte, veniva rigirato e rilavato e una volta ben pulito veniva tagliato in varie trance, le più lunghe dovevano servire per le salsicce e le più corte per le soppressate, quindi veniva sistemato in un recipiente con del sale e spicchi di limone. Anche la parte riproduttiva della bestia veniva eliminata, e a riprova che del maiale tutto serve, non veniva buttata via. Quella parte, infatti,volutamente tagliata con del grasso superfluo si conservava appesa nelle fumose cucine e durante l’anno veniva utilizzata generalmente per ingrassare gli scarponi di cuoio.

La divisione del maiale in due parti veniva vista come la presentazione dell’abbondanza, ognuno infatti partecipava attivamente anche con propri commenti “binidica cumbà tena ru giustu grassu e ra giusta carni macra”. Quell’operazione veniva vissuta con gioia e ilarità da tutta la famiglia. Infatti, l’armonia e il buonumore man mano prendevano il posto della tensione accumulata durante l’uccisione, e come sempre accade dopo ogni sacrificio, dove è lo spirito a trarne maggior vigore, si ritornava tutti più sereni e rinfrancati. Quelle “due menzine” che rappresentavano una vera e propria ricchezza,riempivano gli occhi e soprattutto il cuore dei miei genitori.

Dopo aver estratto le interiora, si estraevano il fegato, il cuore e i polmoni, e prima di ultimare la divisione si prelevavano alcuni pezzi di carne dallo sterno “l’ossu du pumu” e dal filetto, per il ragù e il soffritto che venivano cucinati per il pranzo della sera del sabato. Ultimata la divisione, si provvedeva a gonfiare con una cannuccia la vescica e i veli situati ai due lati sopra il filetto che servivano successivamente ad avvolgere il capicollo.

Il maiale squartato in due parti, restava appeso “aru gambeddru” per tutta la giornata del sabato. La carne poteva così raffreddarsi meglio e l’indomani per questo motivo poteva essere meglio lavorata.

Ormai buona parte del lavoro era fatto. Si pensava così al meritato pranzo che di li a poco veniva servito a parenti e amici intervenuti. La pasta, quasi sempre ziti o maltagliati, condita con il fresco ragù, abbondava in ogni piatto, la carne al sugo cotta a fuoco lento, servita ancora fumante nelle caratteristiche zuppiere di terracotta, dava particolare consistenza al primo piatto “pasta asciutta e carn’i porcu”. L’immancabile peperoncino e una spruzzata di pecorino completavano il gusto e l’aspetto di quel semplice, unico ed irripetibile piatto. Un buon bicchiere di vino “magliocculu” dava il tocco di classe a quel succulento pasto che, nel secondo piatto si presentava ai commensali sotto forma di soffritto di carne e del classico (per la nostra zona) fegato fritto avvolto a pezzetti nel velo di grasso. Noci, castagne infornate, le tipiche crocette di fichi ”i nucchette” costituivano gli stuzzichini che consentivano ai commensali di attardarsi a tavola.

Le storie che si raccontavano, in parte le stesse dell’anno precedente, tutte rigorosamente dedicate alle uccisioni di maiali avvenute nei tempi passati, costituivano per ognuno la base del parlare. Cosicchè fra porci che risuscitavano addirittura dopo averli spennati, e altri che per morire dovevano subire la decapitazione, volentieri, il tempo, si lasciava prendere da quelle allegre novelle, e con fredda ed incalcolata metodica, ad ognuno concedeva parte di sè, regalando loro, effimere sensazioni di serenità e pacatezza.

A sera tarda amici e parenti s’apprestavano a far ritorno alle proprie case. Non prima però di aver offerto anche per l’indomani la loro disponibilità di aiuto.

L’allegria della festa lasciava così il posto al programma di lavoro che l’indomani, domenica,tutta la famiglia doveva svolgere.

Fin dal primo mattino, mio padre provvedeva “a spasciare” le due “menzine”. L’operazione di divisione della carne iniziava con il taglio della testa del maiale. Prima di tutto si scarnavano i due guanciali che, privati dall’ossatura e ritagliati a triangolo davano forma ai due “gujulari. Si procedeva con l’estrazione del velo, l’estrazione del filetto, la separazione delle costine, dei capicolli e dei prosciutti. Il taglio delle pancette e la separazione del lardo dalla cotica, ultimava la fase di divisione delle carni.

La carne selezionata veniva così destinata alle varie lavorazioni; quella più magra e priva di nervi serviva per le soppressate. Per via della mitezza del clima marino della nostra zona che non ha mai consentito la stagionatura e la conservazione dei prosciutti, anche la carne di questi ultimi veniva destinata alla stessa lavorazione. La rimanente carne e tutti i ritagli servivano per le salsicce.

Era d’uso in quel periodo tenere in buona considerazione qualche parente più stretto, il prete del paese o qualche amico particolare. Si provvedeva così, in segno di stima, inviare loro un pezzo del filetto o di altra parte di carne considerata di taglio nobile.

Durante la maialatura, la carne veniva sistemata nella madia “a maiddra”, abitualmente utilizzata per l’impasto del pane, e una volta ultimata la divisione, iniziava il faticoso e paziente lavoro di tritatura. Per tagliare la carne si utilizzavano i coltelli più piccoli e più taglienti, qualcuno riusciva ad utilizzarne contemporaneamente due in modo tale da far incrociare le lame, riuscendo a produrre così un quantitativo maggiore di carne da insaccare.

La carne una volta sminuzzata, fatta appunto “pezzi pezzi cum’a carni da sazizza” , veniva salata; 33 grammi ogni chilo, e una volta condita con la soggettiva aggiunta di finocchietto e polvere di pepe rosso veniva impastata e ben amalgamata. Subito dopo, Iniziava la fase dell’insaccatura. Per prima s’insaccava la carne delle soppressate. L’intestino veniva insaccato a mano tramite l’utilizzo di particolari piccoli imbuti “i mbutiddru da sazizza e da suprissata” questo piccolo attrezzo fissato ad una estremità del budello veniva tenuto dall’insaccatrice con la mano sinistra facendo in modo che, con il pollice della stessa mano poteva effettuare la pigiatura della carne posta nell’imbuto con la mano destra. Il budello man mano si riempiva e per evitare possibili vuoti d’aria, veniva punto con l’ago che si usava per la cucitura dei sacconi di paglia “a saccurali”. Nel mentre si espletava quella funzione, si pensava a quante salsicce e soppressate si potevano ricavare da quel ben di Dio. Anche noi figli facevamo delle previsioni, ma, più che altro, facevamo delle richieste. Ognuno di noi voleva avere una salsiccia per conto suo. Cosicché utilizzando i ritagli dell’intestino che man mano si accumulavano, mia madre esaudiva in poco tempo Il desiderio di ognuno.

Il lavoro di insaccatura, sicuramente il più delicato, impegnava tutta la mattinata di domenica. Tuttavia, al suono delle campane che annunciavano la Messa domenicale, veniva giustamente interrotto per essere ripreso e ultimato subito dopo.

Una volta insaccate, e prima di essere appese, le soppressate venivano messe sotto peso “aru suppessulu” per sei o sette giorni. Quasi sempre venivano sistemate sotto una tavola sulla quale venivano poste delle pesanti pietre in modo da pressarle. Da qui, appunto, il nome di soppressate. Le salsicce invece, venivano subito appese alle pertiche situate in soffitta o in alternativa in una stanza al piano terra adibita a cucina. Generalmente, in questi locali, in uno degli angoli, esisteva un focolare aperto, senza cioè l’ausilio del camino. Ogni volta che vi si accendeva il fuoco, Il fumo che si sprigionava avvolgeva l’intero ambiente annerendo ogni cosa. Quelle nere e fumose cucine, dovevano rappresentare il locale ideale per la stagionatura degli insaccati. Infatti l’ausilio del fumo oltre che agevolarne il processo di asciugamento, infondeva loro un profumo particolare, rendendoli dal gusto unico e oltremodo prelibato. Alcune volte, poteva capitare che l’intestino non bastava a coprire tutta la carne da insaccare. Si ricavava così “l’orva”: Una sorta di soppressata più voluminosa che si otteneva insaccando la parte più grande e più larga dell’intestino cieco.

La stanchezza accumulata dal lavoro profuso per insaccare i salami, appena le pertiche si riempivano di salsicce, come per incanto svaniva.

La provvista del salame era molto importante. L’incamerare una sostanziosa scorta di salame, per quelle famiglie che nel paese scannavano il maiale, oltre a rappresentare un notevole punto di riferimento per il sostentamento alimentare, stava ad indicare, non di meno, un considerevole aspetto sociale. Infatti, l’offrire del buon salame, in particolari ricorrenze, poteva indicare il livello d’appartenenza al proprio ceto.

Le orecchie, la coda, il muso, le zampe, parte della testa e parte delle cotiche venivano cotti con acqua e aceto e trasformate in gelatina. Dalla tritatura del polmone, dell’esofago e da altri ritagli si ricavava l’impasto per “l’agliata”: una salsiccia più povera il cui ingrediente aromatico principale era appunto l’aglio.

Ultimata la fase di insaccatura dei salami, successivamente, l’attenzione veniva rivolta alla preparazione e alla posa sul fuoco della “quadara”. Quell’operazione rappresentava l’epilogo dell’intera lavorazione. Tutto il grasso tagliato a cubetti, le ossa e tutti i rimasugli di carne venivano introdotti “nta quadara”. Generalmente la cottura “di frittuli” durava un’intera nottata e la mattinata del giorno successivo. Finalmente il risultato finale veniva raggiunto, “a quadra” poteva essere tolta dal fuoco, non prima però che un componente della famiglia coperto da un mantello avesse pronunciato l’augurio di buona abbondanza recitando la frase: “Santu Martinu, Santu Martinu”. L’origine di questa usanza, forse, deriva da una tradizione molto sentita nel paese abruzzese di San Valentino, dove durante i festeggiamenti di San Martino, si dà particolare risalto al concetto generico dell’abbondanza, simboleggiato, durante la processione, dalla cornucopia o dal corno dell’abbondanza, simbolo appunto della prosperità.

Iniziava così la raccolta del grasso. Di questo prodotto, considerato importante, se ne riempivano i tipici “vasetti” di terra cotta. Generalmente, il grasso veniva utilizzato durante l’anno in diverse pietanze della nostra cucina come condimento base, molte volte in sostituzione dell’olio d’oliva. Solo Il primo grasso, quello in superficie, detto “vergine”, veniva utilizzato per particolari preparati e quindi veniva conservato a parte. Finita la raccolta del grasso, sul fondo “da quadara” rimanevano i profumatissimi e gustosissimi “fisuragli” :piccoli pezzi di carne magra che venivano raccolti e custoditi in recipienti di vetro per essere consumati successivamente spalmati sul pane o nelle calde “pitte” appena sfornate.

La levata della “quadara” poneva fine a tutto il rituale della lavorazione delle carni e forniva al contempo l’opportunità del pranzo finale “a frittuliata” a base di cotiche, lardo, pezzi di carne da spolpare dagli ossi e l’immancabile gustoso cavolo lesso. Generalmente il banchetto “da frittuliata” veniva condiviso con parenti e amici e spesso si concludeva con l’omaggio canoro rivolto a tutta la famiglia dal canto “da strina ”, tipica serenata augurale cantata da un gruppo di amici, che dopo aver cantato e augurato ogni bene, speranzosi in un invito del padrone di casa, che puntualmente si concretizzava, si apprestavano con fervida trepidazione a partecipare al banchetto . Canti e balli della tradizione popolare concludevano una giornata di festa e convivialità fortemente voluta e partecipata, scaturita anche dalla voglia di cancellare il sudore profuso e le amarezze accumulate in altre giornate dell’anno, che, per fortuna, in quella festosa, come d’incanto trovavano fine. In quella stessa giornata si rafforzava la speranza e la volontà di continuare una vita migliore, badando a non buttar via nulla perché nel porcile un nuovo inquilino aveva già preso il posto del maiale scannato da poco, c’era “nàtru passaturu” che aveva bisogno di cure e attenzioni, di altro sudore e nuovi momenti di amarezza, e che inevitabilmente proiettava la mente all’incipiente duro lavoro dell’anno appena iniziato.

 

(Luigi Tuoto)

 

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